Noi
e il denaro: radiografia di un rapporto complesso
Perché esistono i ricchi avari e i poveri
spendaccioni? Che cosa rappresenta il denaro per
ciascuno di noi? Come e perché il nostro rapporto con
il denaro è il riflesso della nostra personalità e
non del nostro reddito. (I parte)
Il
denaro ha un simbolismo molto potente. Per alcuni è
sinonimo di forza, consente di esercitare un potere
sugli altri, nella coppia, in famiglia o in azienda.
Ma il denaro rappresenta anche la sicurezza, la
protezione, soprattutto nelle persone di una certa età.
Infine, il denaro è fonte di piacere, un
piacere che può però assumere una dimensione
malsana, per esempio quando serve a colmare un vuoto
interiore: in questo caso, al pari del cibo o
dell’alcool, il denaro svolge la funzione di
riempire questo vuoto, con il rischio di produrre
dipendenza. Peggio ancora quando il fatto di essere
ricchi compensa una mancanza narcisistica, e si
finisce per pensare che il denaro renda degni di
amore.
Oggetto
ambivalente, il denaro è un’invenzione
formidabile, uno strumento senza pari per regolare i rapporti tra gli individui, e una conquista della
civilizzazione che è senz’altro da proteggere. L’organizzazione delle relazioni per mezzo di un
terzo mediatore, il denaro, ci
obbliga a considerare gli altri come nostri
simili, anzi, come nostri pari; paradossalmente, il
denaro impiegato unicamente come strumento di
misura ci impedisce in qualche modo di
prevaricare sul nostro prossimo.
Il sistema
salariale, per esempio, sanziona l’impiego della
forza lavoro senza compensazione economica. Si può
essere in disaccordo sulla somma erogata, ma non sul
principio. In effetti, l’espressione “guadagnarsi
da vivere” è relativamente recente ed è il
frutto della società degli scambi, nella quale
l’individuo “affitta” la sua forza lavoro e
riceve in cambio un salario che gli consente di
acquistare ciò di cui ha bisogno o semplicemente
voglia.
Non
più tardi di 500 anni fa, “guadagnarsi da vivere”
aveva un significato del tutto diverso: chi prestava la propria opera doveva rendere al signore un certo numero
di servigi, e l’organizzazione
sociale era tale che ciascuno, bambino o adulto, era
obbligato a delle servitù.
Esistevano perciò compiti ai quali bisognava
sottomettersi per avere il diritto a un tetto, al cibo
o semplicemente
alla sopravvivenza. Ovunque e in tutte le epoche il
lavoro è l’elemento essenziale della vita della società, ma il fatto di venire
compensati in denaro per le proprie prestazioni aumenta il grado di libertà degli individui perché
almeno teoricamente, chiunque
riceva un compenso lo può spendere nel modo
che desidera.
Tuttavia,
il denaro continua a suscitare enormi ambivalenze: se
la società del consumo lo venera, le religioni lo
disprezzano. Nelle religioni monoteistiche
occidentali, e soprattutto in quella cattolica, il
denaro viene condannato in quanto può potenzialmente
trasformarsi in una specie di divinità pagana. Al di
là della pratica dell’usura, la religione cattolica
combatte l’attaccamento eccessivo al denaro quando
questo funge da protezione fallace contro le angosce
metafisiche.
Se il denaro non rende felici
La ricerca
empirica conferma che
la
felicità si raggiunge in settori ‘ordinari’ della
vita - nella famiglia, con gli amici, e nel lavoro. Tutti
sappiamo che il livello di benessere cresce con il
reddito, ma questo vale soprattutto in relazione al
punto di partenza: c’è più felicità nel passare
da una vita miserabile a una in cui le esigenze
fondamentali sono soddisfatte, che nel diventare un
po’ (o molto) più ricchi di quanto si era già,
perché “man mano che la situazione migliora –
scrive Pinker - i ricavi in termini di accresciuto
benessere diminuiscono: più cibo è meglio, ma solo
fino a un certo punto. Man mano che la situazione
peggiora, invece, il decrescere del benessere può
finire per escluderti dal gioco: non abbastanza cibo,
e sei morto.” Gli esseri umani hanno un’attitudine
ormai confermata da tutti gli studi: per
tutti noi le perdite contano più dei guadagni, e per una ragione tutt’altro
che allegra: “per stare molto peggio ci sono molti
modi, mentre per stare molto meglio no. Il che rende
le possibili perdite più meritevoli di attenzione dei
guadagni: ci sono più cose che ci rendono infelici di
quante ci rendano felici.”
L’erba del vicino…
“Avere
successo non basta. Bisogna che falliscano gli altri”
Gore Vidal
Il nostro stato relativo, cioè la nostra condizione
rispetto a quella degli altri, è più importante
della nostra fortuna in termini assoluti, e questo
spiega perché sentiamo il bisogno di misurarci
costantemente con il prossimo. Gran
parte del nostro malessere deriva dall’invidia, come scrive Pinker: “nel
corso dei secoli, gli osservatori della natura umana
hanno fatto notare questo aspetto tragico della
questione: le persone sono felici quando stanno meglio
del loro prossimo, infelici quando stanno peggio.”
Una ricerca condotta da Diener mostra che il tasso più alto di benessere
soggettivo si riscontra nei paesi che hanno il livello
economico più elevato, i diritti civili più evoluti,
e una cultura fondata sull’individualismo. Ma nella
realtà di tutti i giorni, per
quanto benessere vale la pena di darsi da fare? Ecco come risponde Pinker: “perché l’ottimo non sia nemico del bene,
occorre che il perseguimento della felicità sia
tarato su ciò che è ottenibile con sforzi
ragionevoli nell’ambiente in cui ci si trova a
vivere. Come sappiamo che cosa è ragionevolmente
ottenibile? Una buona fonte di informazioni è ciò
che hanno ottenuto gli altri. Se possono averlo loro,
forse possiamo averlo anche noi.”
Steven
Pinker, Come funziona la mente,
Mondadori, 2002
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